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mercoledì 23 giugno 2010

Libano: diario di un'esperienza vissuta

Pubblico qui di seguito un diario di viaggio particolare, scritto da un'amica, che nel 2009 ha visitato alcuni campi profughi dei palestinesi in Libano.
Dal 1948, dopo la prima guerra arabo-israeliana e la fondazione dello Stato di Israele, la popolazione palestinese è stata costretta ad abbandonare la propria terra e a rifugiarsi presso i paesi confinanti tra cui il Libano, in cui è presente la concentrazione più alta di campi profughi. Qui le condizioni sociali ed economiche sono tuttora difficilissime: i palestinesi sono considerati stranieri dallo Stato libanese e sono privati dei più fondamentali diritti civili, politici e umani: il diritto di cittadinanza, di voto e di associazione gli sono negati, così come non viene riconosciuto loro il diritto al lavoro e la possibilità quindi di accedere a  numerose professioni. Molti dei campi inoltre, sono sprovvisti di regolamentazioni e leggi stabili, che, quando presenti, variano continuamente a seconda dei rapporti di potere, lasciando la popolazione nel caos.
Mi è sembrato importante quindi dare spazio a questo diario, testimonianza diretta della condizione del popolo palestinese in questo momento, di cui noi abbiamo informazione soltanto attraverso i giornali.



Partenza, Libano!
Questo viaggio è un viaggio della memoria, un viaggio per non dimenticare il massacro di profughi palestinesi avvenuto nel 1982 a Sabra e Shatila.

Primo giorno. Kassem è un palestinese, un ex combattente dell’OLP, è lui che ci accoglie nella caotica Beirut. Attualmente lavora per una associazione laica che si occupa dei palestinesi, di lui mi è piaciuto subito quel suo sorriso smagliante stampato in faccia, un sorriso genuino e gli occhi ridenti, con lui ci siamo sentiti subito a nostro agio. Si, ci siamo, perché siamo in tanti partiti dall’Italia per questo viaggio della memoria.
Yalla! Yalla! Pare il grido di battaglia di questo nostro viaggio che per una settimana ci porterà tra i campi profughi dei palestinesi in Libano. Kassem parla inglese ma, ogni tanto, si lascia andare all’arabo e sempre lancia il suo grido ”yalla, yalla!”, andiamo, andiamo!

Oggi, secondo giorno, incontreremo il sindaco di Sidone, un uomo che cerca d’instaurare un buon rapporto con i profughi palestinesi la cui situazione in Libano non è semplice. Il motivo principale è che non vengono riconosciuti come rifugiati e conseguentemente manca loro il relativo status e i privilegi che questo porta con sé. Questo popolo non ha una cittadinanza perché non ha uno stato e nemmeno viene concessa loro quella libanese. Chiederla poi sarebbe un disonore perché accettarla significherebbe rinunciare alla loro terra, la Palestina.

Dopo pochi giorni di viaggio ho già netta la sensazione della suddivisione della popolazione libanese: una parte rispetta i diritti di questi profughi e un’altra mal sopporta questa loro “permanenza forzata” in Libano. La suddivisione tra chi sprona e chi rallenta la ricostruzione del campo di Naher El Bared, bombardato nel 2007, ne è un esempio lampante.

Per entrare nei campi bisogna superare i check point libanesi. Passare di fianco a soldati armati di tutto punto, fucile mitragliatore in mano e carro armato appostato, non è bello. Questa non è una violenza fisica immediata, ma rimane pur sempre una violenza. Libanesi e palestinesi si sono ormai abituati ed è ancora peggio. Mi è stato raccontato lo stupore di un bimbo palestinese, adottato da una famiglia romana, per la mancanza in Italia dei posti di blocco.

Quarto giorno. Eccoci nel campo di Shatila. Sabra non c’è più, è stato raso al suolo! I problemi più gravi di questo campo sono noti e sono comuni a molti altri i campi: riguardano il sistema fognario, quello elettrico e l’assistenza sanitaria.
Non ho potuto visitare il campo di Naher El Bared perché per entrarvi serve un permesso rilasciato dal ministro degli interni e io e pochi altri, non ne siamo stati onorati.
Non potendo visitare Naher El Bared, siamo stati condotti al campo di Beddawi, quello dove si sono rifugiati gli sfollati dei recenti bombardamenti (2007). A Beddawi abbiamo visitato le consuete strutture di base ma la novità è stata entrare in una casa, parlare con una famiglia. Questa famiglia, come tutti i sopravissuti di Naher el Bared si è rifugiata a Beddawi, ma questa è una famiglia “fortunata”; a causa della paralisi del padre è stata sistemata in una abitazione e non nel tipico “garage” com’è capitato alla maggior parte degli sfollati. Ci raccontano che quando sono iniziati i bombardamenti a Naher el Bared loro erano in casa, i combattimenti e i bombardamenti sono continuati per tre giorni e per le famiglie che cercavano di scappare non era facile uscire dal campo. Sentendoli parlare, sentendo quei ricordi, così impressi nelle loro menti, mi sono venuti i brividi, ho avuto paura e rabbia.

Quinto giorno di viaggio, oggi andiamo al confine con Israele.
Sam, il suo vero nome è Samer, è un ragazzo palestinese di 19 anni, nato a Beirut, che ci accompagna e ci da una mano con l’arabo. Eravamo tranquilli sul pullman quando ci hanno detto che stavamo arrivando, Sam si è alzato in piedi e nel vedere il confine ha avuto una reazione che mi ha profondamente colpita: si agitava tutto e gridava:“This is my country! This is my country!”.
Per un giovane europeo il confine è realmente angosciante. C’è una lunghissima rete con il filo spinato sopra, e dietro un muro. Sullo sfondo si vedono le case degli israeliani circondate da una folta vegetazione, il contrasto con gli arbusti secchi del confine è fortissimo.

Ecco l’ultima sera di questo viaggio tra i campi dei profughi palestinesi. Scoppia un grosso temporale, piove a dirotto. Nella mia mente vedo Shatila devastato dal diluvio: la luce saltata, il buio totale, l’acqua corrente interrotta e fango, fango ovunque. È vita questa?

Finalmente sono sull’aereo. Tornare a casa è bello, è bello avere la luce e l’acqua corrente calda e fredda. È bello raccontare per condividere e riflettere su quello che ho visto.

La bandiera palestinese ha il nero in alto in segno di lutto. Quando i palestinesi avranno finalmente la pace e un loro stato, la bandiera verrà voltata e il verde speranza sarà il primo colore. Yalla!


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