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mercoledì 30 giugno 2010

Intranet...tutti sanno cos'è?

L'ultima lezione di informatica applicata al giornalismo si è incentrata sulla comunicazione interna e in particolare sulle modalità di funzionamento di Intranet. Prima di allora conoscevo vagamente che cosa fosse, del resto non mi è mai capitato di usarla, ma nell'ultimo periodo ho approfondito l'argomento e ho cercato di capirne qualcosa di più.
Come facilmente si può leggere da wikipedia, Intranet è una rete locale utilizzata solitamente dalle organizzazioni, per rendere più facile ed efficace la comunicazione interna, in quanto permette di inserire e reperire informazioni utili per tutti i dipendenti. 
Nonostante sia simile a un sito web e presenti le stesse modalità d'uso, permettendo quindi la navigazione ipertestuale e la ricerca per argomenti, resta però una rete circoscritta all'azienda, protetta da sistemi di sicurezza e riservata alle persone autorizzate, che possono accedervi soltanto tramite una  password.
Intranet rappresenta quindi un ottimo mezzo per rendere accessibili a tutti informazioni e servizi utili: bacheche virtuali, rubriche telefoniche, chat, rapporti settimanali, promemoria, avvisi, insomma, tutto ciò che incentiva la collaborazione e permette di migliorare i flussi di lavoro e il coordinamento delle attività, con un notevole risparmio di tempo per l'azienda.
La presenza di questa rete inoltre, non solo permette di fornire informazioni sull'organizzazione dell'impresa, ma è un'efficace soluzione per risolvere problemi di comunicazione che possono verificarsi soprattutto per telelavoratori, lavoratori fuori sede e dipendenti che si spostano frequentemente e che in questo modo  possono rimanere costantemente aggiornati, pur essendo distanti dalla loro sede lavorativa.
Una descrizione simile di Intranet mi è stata fornita anche da una persona che nel 2005 ha lavorato al centro oncologico del Policlinico di Modena e che ha avuto modo di utilizzarla frequentemente. Occupandosi della segreteria, il suo compito era quello di gestire i contatti e gli appuntamenti, che venivano registrati all'interno di un programma della rete chiamato "Pegaso", grazie al quale era possibile anche reperire informazioni sul passato clinico di ogni paziente, il nome del medico che li aveva in cura in quel momento e le raccomandazioni basilari a seconda degli esami da affrontare. Tutto questo significava quindi: agevolazioni per il dipendente nel gestire il proprio lavoro e un miglioramento nella comunicazione esterna con i pazienti.
Nella rete interna del Policlinico era poi presente uno spazio personalizzato per ogni utente, con gli aggiornamenti sugli stipendi, un calendario per le ferie e una posta elettronica.
La grafica mi è stata descritta come piuttosto rudimentale ed essenziale, ma con una mappa del sito evidente ed immediata, che facilitava gli spostamenti nella rete e velocizzava di conseguenza i passaggi di documenti, incentivando la condivisione di informazioni fra i dipendenti.
In conclusione, avere un'Intranet efficace, ben gestita e utilizzata correttamente, favorisce la comunicazione interna e di conseguenza anche quella esterna, fondamentale per un buon funzionamento dell'azienda.

 
  
   

mercoledì 23 giugno 2010

Libano: diario di un'esperienza vissuta

Pubblico qui di seguito un diario di viaggio particolare, scritto da un'amica, che nel 2009 ha visitato alcuni campi profughi dei palestinesi in Libano.
Dal 1948, dopo la prima guerra arabo-israeliana e la fondazione dello Stato di Israele, la popolazione palestinese è stata costretta ad abbandonare la propria terra e a rifugiarsi presso i paesi confinanti tra cui il Libano, in cui è presente la concentrazione più alta di campi profughi. Qui le condizioni sociali ed economiche sono tuttora difficilissime: i palestinesi sono considerati stranieri dallo Stato libanese e sono privati dei più fondamentali diritti civili, politici e umani: il diritto di cittadinanza, di voto e di associazione gli sono negati, così come non viene riconosciuto loro il diritto al lavoro e la possibilità quindi di accedere a  numerose professioni. Molti dei campi inoltre, sono sprovvisti di regolamentazioni e leggi stabili, che, quando presenti, variano continuamente a seconda dei rapporti di potere, lasciando la popolazione nel caos.
Mi è sembrato importante quindi dare spazio a questo diario, testimonianza diretta della condizione del popolo palestinese in questo momento, di cui noi abbiamo informazione soltanto attraverso i giornali.



Partenza, Libano!
Questo viaggio è un viaggio della memoria, un viaggio per non dimenticare il massacro di profughi palestinesi avvenuto nel 1982 a Sabra e Shatila.

Primo giorno. Kassem è un palestinese, un ex combattente dell’OLP, è lui che ci accoglie nella caotica Beirut. Attualmente lavora per una associazione laica che si occupa dei palestinesi, di lui mi è piaciuto subito quel suo sorriso smagliante stampato in faccia, un sorriso genuino e gli occhi ridenti, con lui ci siamo sentiti subito a nostro agio. Si, ci siamo, perché siamo in tanti partiti dall’Italia per questo viaggio della memoria.
Yalla! Yalla! Pare il grido di battaglia di questo nostro viaggio che per una settimana ci porterà tra i campi profughi dei palestinesi in Libano. Kassem parla inglese ma, ogni tanto, si lascia andare all’arabo e sempre lancia il suo grido ”yalla, yalla!”, andiamo, andiamo!

Oggi, secondo giorno, incontreremo il sindaco di Sidone, un uomo che cerca d’instaurare un buon rapporto con i profughi palestinesi la cui situazione in Libano non è semplice. Il motivo principale è che non vengono riconosciuti come rifugiati e conseguentemente manca loro il relativo status e i privilegi che questo porta con sé. Questo popolo non ha una cittadinanza perché non ha uno stato e nemmeno viene concessa loro quella libanese. Chiederla poi sarebbe un disonore perché accettarla significherebbe rinunciare alla loro terra, la Palestina.

Dopo pochi giorni di viaggio ho già netta la sensazione della suddivisione della popolazione libanese: una parte rispetta i diritti di questi profughi e un’altra mal sopporta questa loro “permanenza forzata” in Libano. La suddivisione tra chi sprona e chi rallenta la ricostruzione del campo di Naher El Bared, bombardato nel 2007, ne è un esempio lampante.

Per entrare nei campi bisogna superare i check point libanesi. Passare di fianco a soldati armati di tutto punto, fucile mitragliatore in mano e carro armato appostato, non è bello. Questa non è una violenza fisica immediata, ma rimane pur sempre una violenza. Libanesi e palestinesi si sono ormai abituati ed è ancora peggio. Mi è stato raccontato lo stupore di un bimbo palestinese, adottato da una famiglia romana, per la mancanza in Italia dei posti di blocco.

Quarto giorno. Eccoci nel campo di Shatila. Sabra non c’è più, è stato raso al suolo! I problemi più gravi di questo campo sono noti e sono comuni a molti altri i campi: riguardano il sistema fognario, quello elettrico e l’assistenza sanitaria.
Non ho potuto visitare il campo di Naher El Bared perché per entrarvi serve un permesso rilasciato dal ministro degli interni e io e pochi altri, non ne siamo stati onorati.
Non potendo visitare Naher El Bared, siamo stati condotti al campo di Beddawi, quello dove si sono rifugiati gli sfollati dei recenti bombardamenti (2007). A Beddawi abbiamo visitato le consuete strutture di base ma la novità è stata entrare in una casa, parlare con una famiglia. Questa famiglia, come tutti i sopravissuti di Naher el Bared si è rifugiata a Beddawi, ma questa è una famiglia “fortunata”; a causa della paralisi del padre è stata sistemata in una abitazione e non nel tipico “garage” com’è capitato alla maggior parte degli sfollati. Ci raccontano che quando sono iniziati i bombardamenti a Naher el Bared loro erano in casa, i combattimenti e i bombardamenti sono continuati per tre giorni e per le famiglie che cercavano di scappare non era facile uscire dal campo. Sentendoli parlare, sentendo quei ricordi, così impressi nelle loro menti, mi sono venuti i brividi, ho avuto paura e rabbia.

Quinto giorno di viaggio, oggi andiamo al confine con Israele.
Sam, il suo vero nome è Samer, è un ragazzo palestinese di 19 anni, nato a Beirut, che ci accompagna e ci da una mano con l’arabo. Eravamo tranquilli sul pullman quando ci hanno detto che stavamo arrivando, Sam si è alzato in piedi e nel vedere il confine ha avuto una reazione che mi ha profondamente colpita: si agitava tutto e gridava:“This is my country! This is my country!”.
Per un giovane europeo il confine è realmente angosciante. C’è una lunghissima rete con il filo spinato sopra, e dietro un muro. Sullo sfondo si vedono le case degli israeliani circondate da una folta vegetazione, il contrasto con gli arbusti secchi del confine è fortissimo.

Ecco l’ultima sera di questo viaggio tra i campi dei profughi palestinesi. Scoppia un grosso temporale, piove a dirotto. Nella mia mente vedo Shatila devastato dal diluvio: la luce saltata, il buio totale, l’acqua corrente interrotta e fango, fango ovunque. È vita questa?

Finalmente sono sull’aereo. Tornare a casa è bello, è bello avere la luce e l’acqua corrente calda e fredda. È bello raccontare per condividere e riflettere su quello che ho visto.

La bandiera palestinese ha il nero in alto in segno di lutto. Quando i palestinesi avranno finalmente la pace e un loro stato, la bandiera verrà voltata e il verde speranza sarà il primo colore. Yalla!


mercoledì 2 giugno 2010

Bregovic LIVE in Guca 2007 (KALASHNIKOV)

Woodstock dell' Europa dell'est

Capita spesso, quando si sente parlare dei paesi balcanici, che inevitabilmente venga alla mente la disgregazione della Jugoslavia negli anni '90 e la guerra che ne è derivata, un conflitto etnico e religioso di cui ancora oggi soprattutto Bosnia e Serbia portano il segno.
Tuttavia, nonostante le difficoltà e i contrasti tra le popolazioni, questi paesi conservano ancora intatta una propria cultura, forse da alcuni di noi ancora poco conosciuta. Io per prima non ne ero molto informata, se non fosse che, per caso, quest anno mi è capitato di organizzare un viaggio proprio in questi luoghi e tra le tante notizie e curiosità sulla Serbia in particolare, ho scoperto l' esistenza di un evento decisamente caratteristico: il Guca trumpet festival, appuntamento tradizionale di musica popolare per fiati, noto anche con il nome di Assemblea Dragacevo.
Inizialmente solo un evento locale, il festival con il tempo è diventato internazionale e ospita ogni anno milioni di persone provenienti da tutto il mondo, che giungono a Guca, villaggio della Serbia centrale, per assistere ai concerti e ascoltare i ritmi frenetici che caratterizzano la musica dei suonatori di tromba.
Le orchestre di ottoni che si alternano sul palco sono composte per la maggior parte da musicisti rom, che portano avanti una tradizione che ha avuto origine nel XIX secolo, durante la guerra di liberazione contro l' impero Ottomano, sotto la guida di Milos Obrenovic.
I diversi suoni, tipici della Serbia più rurale si mescolano tra loro, in una musica tradizionale che spesso ha accompagnato, e accompagna tutt'ora, una serie di eventi tipici della vita quotidiana della popolazione, dai matrimoni ai battesimi e alle feste di chiesa; un ritorno quindi di questo popolo alle sue radici più profonde, con l' intento di mantenere in vita una tradizione musicale ormai antica, spesso rivisitandola, con lo scopo di diffonderla soprattutto tra i più giovani.
Un esempio della riuscita di questo progetto, è la musica di Goran Bregovic, musicista balcanico, che ha acquisito fama internazionale proprio arrangiando i brani appartenenti a questa tradizione, conquistando soprattutto un pubblico giovane, che per la prima volta si è accostato ad una cultura popolare quasi sconosciuta.
L'evento dura solitamente 8 giorni e ad agosto 2010, festeggia il suo 50esimo anniversario; sul sito ufficiale è possibile trovare il programma dei concerti e diverse informazioni sul luogo che li ospita.
Qualcuno ha persino definito il festival la " Woodstock dell' Europa del est" ...sarà vero? Forse il paragone è un po' eccessivo, ma per curiosità credo proprio che andrò a vedere!!